Enrico Colombatto |
Economista controcorrente, liberista
puro e duro, spirito libero come pochi, sempre sferzante, Enrico
Colombatto, invitato a presentare il suo libro - “L'economia che
serve”, G.Giappichelli Editore - al “Dumse da fé”, gruppo
anomalo di esponenti torinesi che, coordinato dall'infaticabile Piero
Gola, si riuniscono ogni due settimane per confrontarsi con
eccellenze locali, ha confermato tutta la sua verve
e, rispondendo a tante domande di attualità, non ha mancato di
ribadire quei concetti e principi che lo fanno considerare
particolarmente “scomodo” nel sistema cittadino, compreso quello
accademico al quale appartiene.
Ordinario
di Politica economica all'Università di Torino, oltre che presidente
del comitato scientifico e responsabile della ricerca del francese
Iref (Institut de Recherches Economiques et Fiscales) e senior
fellow del Gis (Geopolitical
Intelligence Service, Liechtenstein), Enrico Colombatto è
inflessibile e caustico già con gli economisti, pochi dei quali sono
veramente “buoni” e, comunque, proprio per questo “scartati”.
Buoni, secondo lui, sono gli economisti che non dicono di avere la
bacchetta magica e “usano il buon senso, rendendosi conto che molti
fenomeni sono troppo complessi per essere spiegati dalla giusta
equazione o dal giusto modello”, riconoscendo che “gli esseri
umani non sono né cloni né angeli”, oltre che “il ricorso
all'intervento pubblico non è necessariamente la soluzione migliore,
quando le libere interazioni umane non forniscono la risposta
desiderata a un problema economico”.
Infatti,
come ha spiegato, “anche i protagonisti della politica economica
sono esseri umani fallibili, rispondono agli incentivi generati dal
mondo della politica e, qualche volta, sono meno altruisti di quanto
sarebbe desiderabile”. Non solo: naturalmente, “tendono a
perseguire i propri fini, a volte ispirati da un lodevole altruismo e
a volte, invece, da avidità, vanità, sete di potere, pregiudizi
ideologici”.
Enrico
Colombatto ha invitato a diffidare di chi sostiene di operare per il
bene comune o il benessere sociale (“sono solo slogan politici, derive utilitaristiche”), di chi dice che il pil, i consumi, l'occupazione si
possono aumentare stampando moneta o facendo debiti o accrescendo il
deficit; “un Paese diventa più ricco e migliora unicamente se
incrementa la produzione e la produttività”, consentendo a tutti
di valorizzare i propri talenti e la propria volontà di fare, di
intraprendere, lasciando la maggiore libertà individuale possibile,
limitandola soltanto al rispetto delle libertà altrui. Non
tartassando (“l'imposizione fiscale è furto aggravato e
continuato”) e non impedendo, ovunque, la concorrenza, fattore
fondamentale dello sviluppo.
Classe
1954, torinese-valdostano, laurea in Economia e commercio nell'Ateneo
dove insegna, master e dottorato alla London School of Economics,
allievo prediletto dell'indimenticabile Sergio Ricossa e con riferimenti ideologici del calibro di Mises, Rothbard e De Jasay, Enrico
Colombatto sorride amaramente quando sente parlare di reddito di
cittadinanza, incentivi alle imprese o all'innovazione,
finanziamenti pubblici di infrastrutture che, se sostenibili,
sarebbero realizzate da privati, misure di politica economica
“miracolose” ...
Colombatto
ha concluso dicendo semplicemente che i migliori provvedimenti
economici sono quelli che modificano gli errori fatti e che non consentono al Fisco di mettere le mani nelle tasche delle persone.