C’era
una volta l’ardua scelta. Gli inglesi lo chiamano asetticamente
trade-off.
Ma come fai a rimanere indifferente se devi decidere chi o cosa
salvare? Le vite umane o l’economia, il presente o il futuro? Fino
a qualche giorno fa. tutti pensavano che si dovesse decidere tra le
une e l’altra. Da qui il tergiversare, il temporeggiare, il
piroettare linguistico, l’affidarsi alla coscienza dei singoli, al
senso civico, per chiudere senza ordinare la chiusura, azzerare
i contatti sociali ma andare a produrre.
Che cosa e per chi, poi?
Ora
è chiaro: salvare
le vite umane viene prima di tutto. E
va insieme con il salvare l’economia. Prima anticipiamo la dolorosa
decisione di ordinare la chiusura totale e imporre il tutti a casa,
con l’esercito a farci obbedire, se necessario, più vite salviamo
e più economia salviamo. E finalmente i la regione Lombardia prima e
il Governo dopo si sono mossi, ordinando la chiusura di tutte le
attività produttive non essenziali.
Come
mai? Semplice: uno a uno i settori stanno comunque spegnendosi, ma è
una lenta agonia. E chi ha dovuto chiudere per primo, per
dettato di legge giuridica o di ferrea legge economica (comunque
sia dura
lex sed lex),
soffre di più e più si avvicina al baratro del fallimento. Pensiamo
agli alberghi e alle compagnie aeree, solo per citarne due di una
lunga e buia lista.
Mentre
se decretiamo la chiusura immediata, come ha fatto la Cina e come è
stato deciso anche da noi, di ogni attività, accorciamo il tempo
della ferma e avviciniamo il momento della ripartenza. Che, diciamolo
con sincerità, non
sarà a «V», una discesa ardita e una risalita, e nemmeno a «U»,
che tra la fase discendente e quella ascendente mette una pausa di
riflessione. Se va bene sarà a «J» rovesciata, dove il recupero
risulterà parziale e graduale.
Perché?
Per
sei ragioni,
come spiega l’ultima newsletter di Ceresio
investors:
1. le
persone non si fideranno di ricominciare subito l’esistenza che
conducevano prima (e se per caso fosse rimasto un solo coronavirus in
giro e infettasse proprio me?); 2. le misure restrittive verranno
allentate gradualmente (per vedere l’effetto che fa); 3. i
movimenti internazionali delle persone rimarranno limitati, per
evitare di importare nuovamente l’epidemia; 4. le fabbriche
riapriranno lentamente, in funzione dei semilavorati disponibili e
degli ordini in arrivo; 5. la attuale diminuzione di reddito è così
forte che intacca le future possibilità di spesa; 6. il crollo delle
borse costringerà a essere parsimoniosi per ricostituire il
risparmio perduto.
Così
è, piaccia o meno. L’importante è evitare una «L»: depressione
dopo recessione.
E questo è il fine delle politiche economiche che sono varate e
continuamente aggiustate al bisogno.
Non
è, purtroppo, un
reculer
pour mieux sauter,
un prendere la rincorsa per spiccare un salto più alto. Ora che vita
umana e vita economica sono completamente riconciliate, chiudere
tutto e chiudere subito è sacrosanto.
*Luca
Paolazzi è
Economista partner a Ref Ricerche. Dall'ottobre 2007 al febbraio 2018
ha diretto il Centro Studi Confindustria. Dal settembre 1986 al
settembre 2007 ha lavorato a Il Sole 24 Ore, arrivando a coordinare
gli editoriali. Dal marzo 1984 all'agosto 1986 è stato economista
all'Ufficio studi Fiat. Autore di numerose pubblicazioni di economia,
ha vinto i premi Q8, Brizio e Lingotto per il giornalismo economico.
Ps:
Questo articolo viene pubblicato per gentile concessione di
Firstonline, l'autorevole e prestigioso giornale web di economia e
finanza fondato e guidato da Ernesto Auci e Franco Locatelli.