Nell'ottobre del 2005, Henry Marchi,
pseudonimo di un giornalista economico torinese di lungo corso, ha
pubblicato “I nuovi bramini dell'economia/La casta dei top
manager”, un pamphlet che, fra l'altro, ha evidenziato tanti vizi
della categoria, oltre ad anticipare problematiche destinate a
esplodere più avanti, quali quelle delle remunerazioni spropositate,
delle super-liquidazioni, dei danni provocati alle aziende
amministrate, a volte gravissimi quando non fatali.
Prima di riportare qualche stralcio di
quel libretto, a suo tempo scandaloso, è opportuno segnalare che,
nel frattempo, la casta dei top manager, sempre più ampia, ha
ampliato la gamma dei suoi peccati e dei suoi scempi.
Tra le nuove abitudini dei gestori
apicali di aziende ed enti emergono, infatti, quelle di ricorrere
continuamente a consulenti esterni, sempre ben pagati e spesso amici
o collusi per la divisione della posta, a periti, per evitare di
assumersi la responsabilità di scelte che potrebbero essere
contestate; ma anche quelle di far analizzare tutte le decisioni dei
predecessori (“due diligence”) per attribuire a loro ogni
colpa e verificare l'opportunità di chiedere risarcimenti, a
prescindere dalle possibilità reali; piuttosto che di utilizzare le
risorse della società o dell'ente impropriamente, cioè senza la
cura e gli scrupoli che meritano i soldi gestiti per conto di un
altro soggetto.
Tutto questo appare ancora più grave
quando gli autori dei misfatti sono amministratori di società che
vantano la loro eticità, come una Sgr subalpina che gestisce
miliardi di istituzioni di diritto privato, oppure di enti che
dovrebbero essere esempi di buon governo, di diligenza attenta e
minuziosa del patrimonio, delle spese e degli investimenti.
Tornando al pamphlet, le prime righe
dell'introduzione presentavano così i top manager: “c'è chi li
considera maghi aziendali, eroi del capitalismo post-industriale,
miti della globalizzazione e chi, invece, nuovi capitani di ventura,
adepti cinici e sopravvalutati della gestione societaria,
spregiudicati porporati dell'economia moderna. Insomma, per dirla in
modo forse un po' sacrilego, se alcuni arrivano a beatificarli o
quasi, altri li dipingono come veri e propri diavoli in gessato
piuttosto che in tailleur firmato Armani ...”.
Quanto ai vizi, “Tra i più gravi –
scriveva Henry Marchi – spiccano il cinismo, l'immoralità, la
slealtà, l'avidità, l'ipocrisia, l'arroganza e la presunzione, la
sopraffazione, la vanità, la convinzkione dell'invulnerabilità e
dell'onnipotenza, il disprezzo dei subalterni, il sadismo. Il toèp
manger dannoso assume amici, servi solo a lui fedeli, i raccomandati
dai potenti, privilegia i faccendieri e quanti possono aiutarlo. Si
circonda di gente che gli dice soltanto quello che lui ama sentirsi
dire, mentre è infastidito e penalizza i critici, anche se
costruttivi. E' quasi sempre maleducato. Tende a non decidere,
convinto che molti problemi si risolvono da soli, con il tempo;
oppure decide quando non può più evitare di farlo, a causa
dell'inderogabilità della scadenza, dell'impellenza della
necessità”.
Sempre a proposito del manager dannoso,
Henry Marchi aggiungeva: “Chiede molto e dà pochissimo. E'
irriconoscente. Agisce senza trasparenza, evita il confronto,
propugna l'opportunità e la necessità di fare squadra, ma è il
primo a non farla. Ha un comportamento ambiguo. Diffida molto, pur
cercando di dimostrare il contrario. E' ostile e si presenta
amichevole. Risponde con tanti sì, ma non è altrettanto
conseguente. Propende all'obbiezione, a smontare ogni proposta, a
ridimensionare il progetto ambizioso quando non lo sabota; a smorzare
l'entusiasmo, a vanificare le speranze. Ricorre a furbizie come le
convocazioni all'ultimo minuto, l'intempestività della risposta,
l'occultamento di cifre e di fatti determinanti, l'interruzione
dell'incontro prima del momento decisivo, cioè prima che
l'interlocutore possa conseguire un vantaggio strappando un consenso
oppure una promessa. Rimanda, con scuse diverse, l'appuntamento fino
all'esaurimento della pazienza del richiedente”.
L'amministratore rovina-aziende “quando
parla a lungo, lo fa per non dire, per nascondere, per confondere.
Afferma di essere occupatissimo; però trova sempre il tempo per la
“prima” che fa status, per l'inaugurazione dove c'è il ministro
che conta, per il convegno nella bella località turistica, per la
missione di una settimana all'estero”.
“Nell'azienda dominata dal top
manager dannoso, il merito e le capacità non hanno alcuna importanza
o ne hanno poco, perché il detentore del potere distrugge quanto ha
fatto il suo predecessore per minarne il credito e caccia via i più
valenti dirigenti per collocare al loro posto i suoi alleati e i suoi
servi fedeli. D'altronde a lui importa creare posti per i propri
affiliati, parenti, amici, fratelli, mogli e amanti”.
Infine, Henry Marchi ricordava alcune
caratteristiche tipiche del top manager sottolineate dallo psichiatra
Vittorino Andreoli, secondo il quale il super-amministratore di norma
ha una segretaria-vestale che gli fa da mamma e senza la quale è un
uomo “morto”, ha un permanente bruciore di stomaco, è sempre
indisponibile se non per gli intimi, non ha mai tempo, ha
un'eccezionale percezione di sé, considerandosi un faraone, cioè
uomo ma allo stesso tempo divinità e, naturalmente, eterno. Un
faraone che, però, in famiglia, è giudicato un minus habens,
così che lui
preferisce stare sempre fuori,
come i bramini veri che non mangiano mai in compagnia delle mogli.